RABBIT HOLE ||\\/| BE KIND REWIND
John Cameron Mitchell ci aveva abituato a cose migliori, diciamocelo. O meglio più particolari.
Se con soli due film ovvero Hedwig – La diva con qualcosa in più e Shortbus – Dove tutto può succedere è diventato una delle icone indie e queer del settore cinematografico un motivo c’è.
Rabbit Hole invece si presenta, già dalla storia, come un film assolutamente più conforme alle regole del settore e del genere.
Basato sull’omonima pièce teatrale, vincitrice del premio Pulitzer, il film narra la vicenda di una coppia che perduto il figlio piccolo, tenta in tutti i modi di elaborare il lutto.
Fin qui storia trita e ritrita.
La differenza sostanziale rispetto ad altri drammoni strappalacrime è come il regista gestisce le immagini, come le lega, la sensibilità che usa nel descrivere il dolore mostrandolo a tratti ma mai rendendolo pesante. Merito di una fotografia sempre brillante e chiara, di ambientazioni solari e di una colonna sonora leggera, delicata, non la classica orchestra ad archi che non è ancora partita la scena e tu sei già lì con in mano i clinex.
Nonostante non sia di certo paragonabile ai precedenti lavori, questo film in un certo senso mantiene la caratteristica fondamentale che contraddistingue Mitchell e cioè il “sensitive touch”.
Difficile raccontare una tragedia e non far stare male lo spettatore per un’ora e mezza.
Perciò a questo punto direi thumbs up per il film e per gli attori, bravissimi tutti.
Vale la pena perché una Nicole Kidman così vera e così distrutta dal dolore e dal botox soprattutto non l’avete mai vista, neanche in Australia.
Visto da gl’occhi di M.V.